Osservazioni non standard per le galassie di Webb. I dati del telescopio spaziale James Webb sembrano infatti non confermare le ipotesi del modello standard di formazione delle galassie nell’universo primordiale. Le osservazioni sono invece in accordo con la teoria della gravità modificata Mond, che non prevede l’esistenza della materia oscura. Tra gli autori dello studio che riporta questi risultati, pubblicato su The Astrophysical Journal, c’è anche Federico Lelli dell’Inaf di Arcetri
Le osservazioni del telescopio spaziale James Webb (Jwst) non confermano le ipotesi del modello standard di formazione delle galassie nell’universo primordiale, quello secondo il quale la materia oscura invisibile avrebbe agevolato la formazione delle stelle e delle galassie più antiche.
Jwst avrebbe dovuto osservare deboli segnali provenienti da galassie giovani e di piccola massa, ma i dati che ha fornito raccontano un’altra storia: le galassie più antiche sono apparse infatti agli occhi del telescopio spaziali grandi e luminose. I risultati dello studio, guidato dalla Case Western Reserve University di Cleveland (Ohio) e pubblicato oggi su The Astrophysical Journal, sembrerebbero mettere quindi in discussione la nostra comprensione dell’universo primordiale.
Nello studio, sono state confrontate le osservazioni di galassie nell’universo primordiale – tecnicamente, ad alto redshift – con le predizioni di due modelli teorici assai diversi fra loro: il modello cosmologico standard Lambda-Cdm (Lambda Cold Dark Matter), in cui la formazione delle galassie è agevolata grazie all’introduzione della materia oscura, e il modello Mond (Modified Newtonian Dynamics), in cui la formazione delle galassie è spiegata grazie a una modifica delle leggi gravitazionali di Newton ed Einstein, e che non contempla la presenza di materia oscura nell’universo.
I dati osservativi ottenuti da Jwst riportati nello studio sono in accordo con la teoria della gravità modificata Mond, introdotta dal fisico Mordehai Milgrom oltre quarant’anni fa.
«Gli astronomi hanno inventato la materia oscura per spiegare come si possa passare da un universo primordiale molto omogeneo a grandi galassie con molto spazio vuoto intorno, com’è attualmente», ricorda infatti Stacy McGaugh, primo autore dell’articolo e direttore del dipartimento di astronomia della Case Western Reserve, sottolineando però che «ciò che la teoria della materia oscura prevedeva non è quello che stiamo osservando».
Il modello Lambda-Cdm prevede che le galassie si siano formate per accrescimento graduale di materia da strutture piccole a strutture più grandi, a causa della gravità extra fornita dalla massa della materia oscura. Secondo la teoria Mond invece, la formazione della struttura nell’universo primordiale sarebbe avvenuta molto più velocemente di quanto previsto dalla teoria Lambda-Cdm. Per questo, se così fosse, Jwst dovrebbe essere in grado di rilevare i deboli segnali luminosi dei piccoli precursori delle galassie.
«Il modello standard Lcdm di formazione delle galassie è un modello strettamente “gerarchico”, in cui le galassie di grande massa si formano grazie alla fusione di tante proto-galassie e/o aloni di materia oscura più piccoli», spiega Federico Lelli dell’Inaf di Arcetri, coautore dello studio.
«Questo processo richiede tempo, quindi ci si aspetta che le galassie massive, come ad esempio le galassie ellittiche, si formino relativamente tardi durante la storia evolutiva dell’universo. Negli ultimi anni, invece, varie osservazioni ottenute con diversi telescopi – Alma, Hst, Spitzer e più recentemente Jwst – ci hanno mostrato uno scenario molto diverso: le galassie massive sono già presenti nell’universo primordiale e sembrano essersi evolute molto più velocemente di quanto ci aspettassimo nel contesto cosmologico standard».
Proprio come prevede la teoria Mond, secondo la quale la massa si assembla rapidamente a formare le galassie e fin dalle fasi iniziali si espande verso l’esterno con il resto dell’universo.
Le osservazioni di giugno 2024
Lelli è anche fra gli autori di un altro studio, pubblicato lo scorso giugno, i cui risultati erano in linea con le previsioni della teoria della gravità modificata Mond, in quel caso basandosi sulla misura delle curve di rotazione delle galassie tramite il fenomeno della lente gravitazionale debole.
«In questa teoria, non esiste alcuna materia oscura», dice Lelli riferendosi alla teoria Mond.
«Verso la fine degli anni ‘90, l’astrofisico Bob Sanders ha utilizzato la teoria Mond per predire che galassie massive ed evolute potessero essere già presenti nell’universo primordiale (a redshift 10). Si tratta di una predizione sorprendente e piuttosto incredibile, infatti non è stata presa in seria considerazione dalla maggior parte della comunità scientifica per molto tempo. I dati attuali, invece, sembrano proprio confermare la predizione di Bob Sanders del lontano 1998 (più di un quarto di secolo fa!), secondo cui le galassie massive si formano su tempi estremamente brevi, dell’ordine di qualche centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang».
Il telescopio spaziale James Webb è stato progettato per rispondere ad alcune delle più grandi domande sull’universo, tra cui come e quando si sono formate le stelle e le galassie. Fino al suo lancio, nel 2021, nessun telescopio era infatti stato in grado di vedere così in profondità nell’universo – e quindi in un certo senso indietro nel tempo.
«In primo luogo, James Webb ha permesso di scoprire galassie ad altissimi redshift, quando l’universo aveva solo qualche centinaio di milioni di anni. Poi, ha rivelato l’esistenza di galassie massive e “passive” – ovvero che non formano più stelle – a redshift più alti di quanto non si ritenesse possibile, indicando che queste galassie passive debbano essersi formate in modo estremamente veloce e quasi “monolitico”. Inoltre», conclude Lelli, «Jwst ha rivelato l’esistenza di ammassi di galassie in epoche cosmiche più antiche di quanto non ci si aspettasse nel contesto cosmologico standard».
Molti di questi studi sono ancora in corso e necessitano di essere confermati con ulteriori osservazioni, ma la possibilità che il telescopio spaziale James Webb ci aiuti a scrivere nuove pagine di astrofisica, dopo soli circa tre anni dal suo lancio, è davvero promettente.