Una laurea in Ingegneria Aerospaziale al Politecnico di Milano, una borsa di studio dell’ESA per la NASA Academy, un dottorato al MIT, un numero importante di pubblicazioni e di primati: come quello di essere stato l’unico ingegnere italiano della NASA coinvolto nella progettazione e nel collaudo del telescopio spaziale James Webb Space Telescope (JWST), oltre che ad aver ricevuto nel 2017 la medaglia NASA Early Career Public Achievement, NASA Group Achievement Award e nel 2020 il Goddard Engineering Team Award, tutte per il lavoro su Webb.
Ma la storia di Giuseppe Cataldo, prima di entrare nella Storia, comincia in un piccolo paese della Puglia, Lizzano, in provincia di Taranto, dove torna due volte l’anno, da quelle stelle e dal suo mare, ma anche da una mamma e un papà capaci di trasmettergli due passioni fondamentali: quella per i libri e quella per la manualità.
Me lo ha raccontato lui in una interessante videocall durante la quale abbiamo parlato dei passaggi fondamentali della sua vita, delle scelte universitarie, di giovani e materie STEM, ma anche di Marte e di quelle rocce che potrebbero un giorno raccontarci come era la Terra 3-4 miliardi di anni fa.
Dove è nata la sua passione per lo spazio?
“Dall’osservazione delle stelle e del cielo. Ho passato tante notti a guardare il cielo, ad imparare i nomi delle costellazioni. E poi ho letto tanti libri. Me li dava mia madre da bambino: quasi tutti sulle scienze. Mi piaceva imparare e capire i fenomeni naturali, incentivato anche dal fatto di essere cresciuto in un piccolo paese vicino il mare, in Puglia, a contatto stretto con la natura. Osservare mi ha sempre spinto a pormi domande, sul come funzionano tante cose sul nostro pianeta e altrove. È questo che mi ha spinto ad appassionarmi alla scienza in generale e poi allo spazio più nello specifico”.
Che mestiere facevano i suoi genitori?
“Mia mamma era insegnante di scuola materna. È stata lei la responsabile di questa mia passione, in un certo senso. Mio padre, invece, era saldatore: da lui, invece, ho preso la passione per l’ingegneria. Sono cresciuto in un ambiente in cui per tutto il tempo avevo a che fare con camion e motori. La mia passione per quell’aspetto pratico è arrivata sicuramente da lui”.
Quale era il luogo in cui si rifugiava per guardare il cielo?
“D’estate andavo in spiaggia. Ma stavo anche sul terrazzo di casa che mi offriva una vista molto bella del cielo. E poi andavo nei boschi: sono stato boy-scout sin da bambino. Questi campi immersi nella natura sulle montagne in Calabria, in Abruzzo e per tanti anni sulle Alpi sono stati i miei luoghi ideali per l’osservazione”.
La scelta della facoltà di Ingegneria Aerospaziale come è arrivata?
“La mia è una storia un po’ particolare. Al liceo, negli ultimi due anni, mi ero appassionato tantissimo alla fisica. Leggere di questi scienziati che erano lì a lavorare sulla teoria dell’atomo, andare nel piccolo, nel microscopico mi piaceva tantissimo, così decisi di iscrivermi al corso di laurea in Fisica, a Milano. Poi accadde qualcosa. Alla metà del primo anno, partecipai ad una presentazione organizzata da un mio amico sull’incidente dello Space Shuttle Columbia del 2003, che esplose al rientro pochi minuti prima dell’atterraggio. Fu una presentazione molto forte. In quel momento quella passione per l’aspetto più pratico dello spazio, che era latente, si riaccese. Mi resi conto che con la Fisica mi sarei instradato verso l’insegnamento, anche universitario, della ricerca, ma che effettivamente vedere lo Space Shuttle volare mi aveva fatto capire che io volevo progettare cose simili, più forti, più sicure. Per questo alla fine del primo anno me ne andai al Politecnico di Milano dove cominciai Ingegneria Aerospaziale”.
Quale messaggio vogliamo dare ai ragazzi che si accingono a scegliere l’Università?
“Il messaggio è che bisogna seguire le proprie passioni, ciò che piace, con un occhio sul futuro. È importante ovviamente vedere come una persona si vede proiettata, vagliando le opportunità che un corso di laurea offre. Ma non c’è una ricetta unica e ognuno deve definire la propria strada. Fisica e Ingegneria, le mie due opzioni, sono versatili e hanno molti aspetti in comune, quindi forse, per quanto mi riguarda, sarei arrivato qui comunque: ho seguito le mie passioni, in un caso e nell’altro. Ma io ho cominciato nel 2004: erano anni difficili, c’erano scioperi di ricercatori e docenti per mancanza di fondi. Questa cosa ammetto che mi aveva fatto paura: pensavo che anche io mi sarei trovato nella stessa situazione. Anche per questo decisi di cambiare e di optare per una facoltà che offriva sicuramente di più”.
Ragazze e STEM: è un tema di cui si dibatte molto in Italia. Cosa direbbe a quelle ragazze che rinunciano a causa di stereotipi di genere o culturali o geografici?
“Ci sono tanti lavori che si possono fare affrontando queste discipline, studi universitari che possono portare lontano. Alla NASA, per esempio, ci sono scienziati, biologi, ingegneri, medici… Ci sono tutte le discipline possibili. La cosa fondamentale è coltivare la passione e andare avanti. E questo vale per i maschi e per le femmine: è un percorso affascinante che può portare tanta soddisfazione. Ovviamente ci vuole impegno, studio, approfondimenti, bisogna leggere tanto e fare attività legate a queste materie: ci sono, per esempio, tanti campi estivi dedicati alla robotica o all’ingegneria. Anche in Italia vedo che si stanno facendo sempre di più, bisogna approfittare di queste opportunità per crescere e allargare le proprie competenze”.
Ha mai pensato di fare l’astronauta?
“Da bambino, quando vedevo “Apollo 13”, sognavo di volare nel futuro. Anche grazie ad un libricino che mi diede papà e che parlava delle missioni Apollo. Poi, crescendo, ho realizzato altro e quello non è diventato il mio sogno, perché mi entusiasma ciò che faccio ora: la ricerca, i progetti. Sono contento così!”.
Lei si è trasferito molto presto all’estero, prima in Francia e poi negli USA: cosa le ha dato di più la dimensione internazionale? O forse la strada che ha scelto ha già in sé una dimensione internazionale?
“Questo sicuramente! Comunque le esperienze all’estero sono arrivate strada facendo: sono state opportunità arrivate all’università. Prima in Francia e poi – il sogno della mia vita – la NASA. Uscendo dall’Italia, ho visto e imparato modi di fare e pensare molto diversi. A cominciare dal sistema universitario francese che si distacca da quello italiano. E poi sono stato catapultato da studente nel mondo del lavoro e quindi ho imparato facendo. Il modo di pensare e fare le cose è molto diverso dall’Italia”.
In che modo?
“Nel sistema universitario, in Francia, per esempio l’aspetto pratico è molto presente. Ci sono corsi, esami tutte le settimane, ma anche molti progetti e laboratori. Venivamo lasciati lì, sempre con la guida di un professore, ma ci permettevano di toccare tutto con mano. E poi c’è l’obbligo di fare tirocini ogni anno. In Francia come in altri Paesi i corsi finiscono molto presto, a maggio, dando la possibilità agli studenti di fare d’estate queste esperienze di tirocinio. Cosa impossibile in Italia a causa del calendario accademico. In America, mi sono trovato alla NASA ancora da studente e, nonostante avessi solo 23 anni, mi davano ruoli di responsabilità fin dall’inizio. Avevo però sempre accanto mentori, persone che mi seguivano aiutandomi ad andare avanti. Una lezione che ho imparato qui è che facciamo cose che nessuno ha mai fatto prima, non abbiamo risposte a tante domande che ci poniamo, motivo per cui non dobbiamo avere paura di porci queste domande”.
Lei è stato l’unico ingegnere italiano ad avere lavorato alla NASA al Telescopio Spaziale James Webb: quante emozioni?
“È stata un’esperienza unica, anche perché non mi aspettavo di farne parte. Stavo finendo il mio dottorato al MIT, quando mi chiesero di far parte del progetto. Era il 2014 e mi sono trovato ad avere a che fare con un telescopio che sapevamo sarebbe stato unico, ma era ancora tutto su carta. Poi negli anni abbiamo visto i vari pezzi, siamo passati all’assemblaggio. Ricordo che quando arrivavo la mattina, dovevo fermarmi ad osservarlo davanti alla finestra della camera bianca in cui veniva costruito: mi emozionava vedere che prendeva forma. Alla fine della giornata lo andavo a rivedere! Poi ho fatto parte della fase di collaudo del telescopio, gestendone una parte: quanta responsabilità! Ero io a dover mettere la firma ed avevo solo 30 anni e tra le mani centinaia di milioni di dollari. È un’esperienza che mi ha insegnato tanto anche in termini di responsabilità. E poi sono arrivate le prime immagini che hanno trasformato il nostro modo di vedere l’universo. Adesso ciò che provo è tanta gioia per ciò che noi ingegneri abbiamo fatto consegnando un prodotto di tale qualità nelle mani degli scienziati”.
Ricerca nello spazio e benefici per l’umanità: quale collegamento?
“La ricerca trova tante applicazioni nella vita di tutti i giorni senza neanche che ce ne rendiamo conto. Il James Webb per esempio è un telescopio, quindi un occhio artificiale. Tante sue tecnologie hanno trovato applicazione nella diagnosi di malattie oculari e anche nella cura e nella chirurgia. Molti problemi vengono così affrontati in modo più preciso. Ma poi possiamo dire che tutte le ricerche che si fanno nello spazio trovano applicazione in molti campi, dall’astronomia alla sicurezza nazionale. Un motto che la NASA usa è “la NASA è con te quando voli”, perché sugli aerei c’è tanta tecnologia della NASA. Uno non lo vede e non lo sa, ma è così. Comunque ogni anno pubblichiamo una lista di tecnologie che vengono sviluppate dall’esplorazione spaziale e che poi trovano applicazione nella vita quotidiana. Vi invito quindi a consultare queste riviste che pubblichiamo ogni anno sul sito della NASA. Miliardi di dollari investiti trovano tante applicazioni”.
Oggi è responsabile della protezione planetaria per la missione che porterà sulla Terra campioni di roccia prelevati da Marte.
“In questo momento stiamo scavando nel terreno di Marte per raccogliere campioni di roccia marziana ma anche atmosfera, quel poco di atmosfera che c’è. L’idea è di riportare questi campioni sulla Terra per analizzarli. Ci saranno delle missioni nel futuro che andranno su Marte a prelevare i campioni, li lanceranno da Marte e li riporteranno sulla Terra. Io mi occupo di protezione planetaria. Noi stiamo prelevando questi campioni da un cratere che si pensa sia stato un lago pieno di acqua: lo vediamo dalle foto, c’è anche un fiume che entra ed esce da questo lago. Parliamo di 3-4 miliardi di anni fa, quando forse Marte era molto simile alla Terra con un campo magnetico e un’atmosfera che lo proteggevano dalla radiazione cosmica e solare. Non sappiamo se i campioni che stiamo prelevando presentino forme di vita antiche, di 3-4 miliardi di anni fa. Quindi, al fine di proteggere l’atmosfera terrestre da possibili contaminazioni, dobbiamo fare in modo che la capsula che riporterà questi materiali non esploda durante la fase di rientro o si rompa durante l’atterraggio. Stiamo perciò lavorando per fare in modo che arrivino sulla terra integri, che i campioni possano essere prelevati, una volta atterrati, e portati in un laboratorio costruito specificamente per questi campioni”.
Perché è importante?
“Perché Marte era simile alla Terra e si pensa che la vita sulla Terra sia cominciata ad emergere esattamente 3-4 miliardi di anni fa. Quindi Marte potrebbe fornirci una fotografia del nostro pianeta così come era 3-4 miliardi di anni fa in una fase critica per il nostro pianeta quando la vita è cominciata a sorgere e ad evolversi. Quindi studiare Marte significa studiare la Terra del passato”.
Ci sono scienziati che sono stati suoi modelli di riferimento?
“Galileo Galilei in primis che ha dato vita al metodo scientifico ed è uno dei primi ad aver puntato un telescopio verso il cielo, un telescopio semplice ma che ci ha fatto vedere tante cose, dai satelliti più grandi di Giove ai crateri lunari agli anelli di Saturno e altro. E poi Giuseppe Moscati, medico e scienziato: mi affascina la sua vita, una vita al servizio dell’umanità, dei poveri, dei malati. Questo per me è molto importante. È quello che faccio: mettere la scienza al servizio dell’umanità. Rendere la tecnologia non fine a se stessa, ma utile al cambiamento positivo di questo mondo in cui viviamo”.
Il suo rapporto con la Puglia?
“Il mio rapporto con la Puglia è molto vivo. Torno almeno due volte l’anno. La mia famiglia è lì. E ammetto che, dopo tanti anni, sento ancora la mancanza della mia terra. Ogni volta che ci torno, comunque, provo ad organizzare eventi di divulgazione scientifica. Per i giovani soprattutto. È importante che i ragazzi sentano storie di persone che come me hanno la fortuna di lavorare alla NASA”.
Giornalista, Capo Redattrice di Economia dello Spazio Magazine,Economia del Mare Magazine,Space&Blue, Vivere Naturale Magazine.