Malerba, una serra per lo Spazio. Intervista al Founder di SpaceV e 1° astronauta italiano con lo shuttle Atlantis nel 1992

malerba founder space V

Il tema della coltivazione di prodotti agricoli direttamente sulla Stazione Spaziale Internazionale è tornato ad essere di interesse, in seguito alla recente missione di Walter Villadei che ha portato in orbita un noto marchio di pasta ma anche e soprattutto grazie all’iniziativa di SpaceV, start up italiana che nell’ultimo Festival dello Spazio di Busalla ha presentato il proof of concept della serra multipiano verticale adattiva, progettata per le coltivazioni di vegetali negli habitat spaziali delle future missioni. Ne abbiamo parlato con il fondatore, l’Ing. Franco Malerba, primo astronauta italiano a volare nello spazio con lo shuttle Atlantis il 31 Luglio 1992.

Non potevamo che partire dalla sua esperienza diretta con il cibo nello spazio, per esplorare lo stato dell’arte della ricerca in ambito agrospaziale.

Malerba e l’esperienza con il cibo nello spazio

Saprà SpaceV rispondere all’esigenza di poter coltivare verdure fresche prima sulla ISS e poi perché no sulla Luna e su Marte?

Certamente il progetto conferma che la ricerca in ambito aerospaziale può avere delle ricadute importanti anche per migliorare i sistemi a Terra, come quelli agricoli. Interessante pensare che queste serre possano anche essere utilizzate anche in lunghe navigazioni oceaniche o in ambienti ostili.

Lei è stato il primo astronauta italiano a partecipare a una missione spaziale. Qual è stata la sua esperienza relativamente all’alimentazione in assenza di gravità?

“La qualità del cibo dello Space Shuttle era a mio avviso assolutamente accettabile anche se a bordo non c’era né frigo né freezer per cui il nostro cibo era del tipo disidratato, composto sottovuoto in piccole bacinelle di plastica trasparente, ma c’erano pure a disposizione delle “razioni militari” di stufato, assai saporite, chiuse in sacchetti di plastica di colore grigio scuro, già pronte all’uso. Il cibo disidratato si riportava alla condizione normale iniettando in ciascuna bacinella la quantità d’acqua prescritta, calda o fredda a seconda del tipo di pietanza – calda per un risotto, fredda per un cocktail di gamberetti. C’era per la reidratazione del cibo una sorta di cassetto ove si inseriva la bacinella del cibo, si programmava l’acqua da aggiungere, si chiudeva il cassetto e quando lo si riapriva c’era la giusta quantità d’acqua già dentro alla confezione. Bastava palpeggiare un poco il cibo attraverso l’involucro di plastica per renderlo omogeneo e pronto all’uso. Tagliando con le forbici il film di chiusura, si poteva estrarre il cibo con un cucchiaino e mangiarlo.

Le bacinelle erano etichettate con il tipo di cibo e con un bollino colorato indicatore della persona cui era destinato; il comandante bollino verde, il pilota bollino rosso e così via; il mio colore era il violetto. Ciascuna bacinella aveva il suo pezzetto di velcro per impedire che svolazzasse via quando non fosse tra le nostre mani; dopo l’uso le bacinelle vuote venivano poi schiacciate l’una sull’altra e stivate nel sottosuolo dello shuttle per essere riportate a terra. Le bevande erano predisposte sotto forma di polvere solubile in sottili buste di materiale plastico riflettente come carta stagnola e ciascuna portava un’etichetta per indicarne il contenuto; avevano un ringrosso plastico che consentiva di iniettare nella busta la giusta quantità d’acqua, calda o fredda, con le stesse modalità delle bacinelle di cibo. Una volta ricostituita la particolare bevanda – caffè, succo di frutta, brodo – si inseriva una cannuccia nel ringrosso ormai bucato e si succhiava il contenuto.

La stessa cannuccia aveva una sua propria semplice valvola a forma di pinza, che si apriva premendola tra le dita quando si volesse bere davvero; se la busta con la bevanda già pronta fosse utilizzata solo in parte, quella valvola avrebbe assicurato che non ci fossero spargimenti inopportuni.

Il mio menu preferito a bordo dello Shuttle Atlantis era risotto con pezzetti di pollo come primo e broccoli saltati come secondo; ricordo che dopo la missione fui invitato ad una trasmissione di Pippo Baudo e mi ero portato da Houston una confezione di cibo spaziale per una dimostrazione in diretta; si trattava di cavolini di Bruxelles.

Non avendo evidentemente il dispenser d’acqua calibrata che c’era a bordo dello shuttle mi ero procurato una grossa siringa calibrata per iniettare l’acqua, che era purtroppo fredda anziché calda. I tempi televisivi erano incalzanti, la mia procedura improvvisata, ma Pippo impose l’assaggio di quel cibo spaziale ad alcuni ospiti in trasmissione; l’esito fu catastrofico, i broccoletti molto sommariamente reidratati e freddi erano assai poco appetitosi; un’assaggiatrice compassionevole esclamò con accento romanesco: “ammiravo l’astronauta Malerba per il suo coraggio, ma ora lo ammiro di più sapendo che mangiava sti broccoletti!”.

supporto per il poc di space v cooler 1

Alla recente missione di Walter Villadei è stato abbinata la promozione di prodotti tipici italiani, come la pasta, anche per promuovere una migliore alimentazione degli astronauti. Siamo così vicini a questo traguardo?

“Indubbiamente questo episodio conferma come lo spazio sia diventato anche una piattaforma di promozione commerciale. Già negli anni ‘90 le amministrazioni Clinton e Bush hanno iscritto nella politica spaziale americana l’obiettivo di promuovere un settore commerciale spaziale “dinamico e competitivo” ma è soprattutto con l’amministrazione Obama che si sono messe in atto le condizioni e i programmi per il trasferimento delle attività in orbita terrestre dall’ambito governativo verso il settore commerciale.

È così cominciata negli USA prima e via via nel mondo occidentale una progressiva apertura del mercato spaziale in orbita terrestre, mentre in ambito governativo rimangono le imprese di esplorazione verso la Luna ed oltre. Le agenzie spaziali governative come la NASA si sono evolute da pool di tecnici e ingegneri, addetti ai lavori in ogni fase dello sviluppo e del servizio a clienti istituzionali delle industrie; sono queste che realizzano i propri satelliti e lanciatori, assumendo integralmente la responsabilità dello sviluppo e della messa in esercizio.

La disponibilità di nuove tecnologie dal mondo della telefonia – piccolissime telecamere, microcircuiti, batterie performanti – hanno fatto scendere i costi della realizzazione di apparecchiature spaziali e l’ingresso di nuovi operatori di lanciatori parzialmente recuperabili hanno fatto scendere i costi dell’accesso allo spazio.

Oggi siamo in pieno in questa nuova fase di sviluppo della space economy e il coinvolgimento in ricerche spaziali offre anche un ritorno d’immagine e quindi uno strumento di marketing molto interessante: lo storytelling che nasce dall’associazione con la ricerca spaziale posiziona un’azienda come innovativa e all’avanguardia tecnologica. Investimenti relativamente modesti in ricerca spaziale possono generare un ritorno significativo in termini di valore del marchio e di copertura mediatica.

Ci sono ormai molti esempi, dalla macchina del caffè sulla ISS finanziata da Lavazza al salto dalla stratosfera di Felix Baumgartner, sponsorizzato da RedBull; dalle bottiglie di vino Bordeaux che hanno viaggiato a bordo della ISS e con la vendita all’asta di una sola di esse si sono ripagate i costi del volo agli olii EVOO italiani che hanno fatto parte di un progetto di UNAPROL e CREA nel programma di ricerca di Samantha Cristoforetti sugli effetti benefici dell’olio di oliva extravergine nel menu degli astronauti”, conclude Malerba.

render serra verticale adattiva spacev 1 1

Luca Parmitano ha portato sulla ISS tra il 2019 e il 2020 la prima sperimentazione di coltivazione nello spazio. Cosa è successo da allora?

“In realtà i primi esperimenti di coltivazione di piante nello spazio risale anni addietro con il programma Skylab, negli anni ’70; si poté verificare che le piante crescono anche in condizioni di assenza di peso in una serra perché l’apparato fogliare cerca la luce e la CO2 mentre l’apparato radicale cerca l’umidità e i nutrimenti del substrato. Non risulta che piante coltivate nell’ambito di esperimenti programmati nello spazio siano state “ufficialmente” mangiate dagli astronauti fino al 2015 quando le prime foglie di insalata romana, coltivate nella serra sperimentale Veggie della NASA, a bordo della ISS, pulite con fazzolettini imbevuti di acido citrico (succo di limone) furono assaggiate dall’astronauta USA Scott Kelly. Pare che mangiando le foglie nate nello spazio disse: un piccolo morso per l’uomo… parafrasando la famosa frase di Neil Armstrong che continuava ….. e un grande balzo per l’umanità. In effetti, se davvero l’Homo Sapiens vuole diventare anche Homo Caelestis e abitare lo spazio e territori extraterrestri – la Luna e Marte – la sua sopravvivenza richiede un progressivo affrancamento dai rifornimenti dalla Terra attraverso il massimo sfruttamento delle risorse disponibili in situ abbinate a nuove tecnologie.

Questa della coltivazione di piante eduli e medicinali nello spazio è diventata un’area di intensa ricerca ed è fonte di continua scoperta ed innovazione. Enti di ricerca, industrie farmaceutiche e del cibo si sono messi al lavoro con entusiasmo, ma c’è un “collo di bottiglia” nella scarsa disponibilità di ambienti di coltivazione nello spazio con le attuali modeste facilities”.

Quali ritiene siano i maggiori benefici della coltivazione di prodotti freschi nello spazio per gli astronauti?

In un ambiente spettacolarmente fuori dal normale, il cibo diventa condivisione culturale, fonte di conforto, momento di relax, oltre che, naturalmente, indispensabile sorgente di nutrizione”. Così si esprime Luca Parmitano sulla quarta di copertina del mio libro “Il cibo nello Spazio”; in questa sintesi è sottinteso che dal cibo fresco prodotto nello spazio, necessariamente vegetale, ci si aspetta molto: che sia gradevole, sapido e ricco di elementi nutraceutici salutari, che richiami anche i gusti cui siamo abituati come abitanti della Terra. Un caso classico è quello della vitamina C (l’acido ascorbico) che il nostro corpo non fabbrica pur avendone bisogno; lo deve assumere dall’alimentazione, ma c’è tutta una scienza alimentare attorno agli “antiossidanti” contenuti in alcune piante, quali la rucola o la cicoria, che combattono i “radicali liberi” di cui soffrono gli astronauti, sottoposti allo stress della missione, dell’ambiente e dell’esposizione a radiazioni ionizzanti”.

poc della serra spaziale space v destinato alla stazione orbitante5

Può spiegare le caratteristiche principali della serra verticale multi-livello adattiva di Space V e i suoi vantaggi per le missioni spaziali?

“La serra adattiva di Space V offre una superficie di coltivazione e quindi una resa anche più che doppia rispetto ad una serra di eguale volume a ripiani fissi. Ottiene questo risultato muovendo i suoi ripiani di coltivazione in funzione della crescita delle piante: quando le piante sono appena seminate i ripiani sono molto ravvicinati e si allontanano l’uno dall’altro via via che le piante coltivate in quel ripiano crescono; ogni ripiano porta nella base inferiore l’illuminazione e l’aerazione climatizzata dedicata al ripiano sottostante e sulla base superiore il ripiano accoglie il vassoio di coltivazione e la fertirrigazione; organizzando intelligentemente le semine e i raccolti si riesce ad accogliere più ripiani nella serra fino a raddoppiarne la resa per unità di volume”.

Questa architettura brevettata consente sostanziali risparmi energetici (perché si climatizza solo il volume strettamente necessario) ed è quindi particolarmente apprezzabile in un ambiente povero di spazi e di risorse quale è una stazione spaziale.

“Ho partecipato alla fondazione di Space V perché credo che questa serra possa diventare uno “standard industriale” per la coltivazione di piante nelle stazioni orbitali e nei futuri insediamenti lunari e marziani. Una volta certificata in orbita terrestre, la serra adattiva di Space V potrà diventare un “arredo” di primaria utilità per le stazioni spaziali della “generazione Artemis” e per le prossime stazioni spaziali commerciali in orbita terrestre; servirebbe in una prima fase a soddisfare la domanda di superfici di coltivazione sperimentale e in una prospettiva successiva anche ad offrire cibo fresco agli astronauti”.

poc della serra spaziale space v destinato alla stazione orbitante6

In che modo la tecnologia di Space V affronta le sfide della coltivazione di piante in ambienti a microgravità? E in cosa si differenzia da altre sperimentazioni agrospaziali esistenti?

“Non ci sono per il momento molti competitor in questo settore emergente delle serre spaziali perché il tema del cibo nello spazio è diventato un tema critico solo dopo il lancio del programma Artemis da parte dell’amministrazione Americana per il ritorno alla Luna, per crearvi le condizioni di una presenza permanente. Il caso più noto di serra operativa sulla ISS è quello di Veggie, di cui s’è detto, progettata ormai qualche tempo fa da Sierra Space Corp.

Con tutto il rispetto dovuto a questa grande azienda americana, sono certo che l’architettura della serra multipiano adattiva di Space V è davvero assai performante, come risulta dalla valutazione autorevole che l’Università di Bologna ha condotto comparando la serra adattiva alla serra “tradizionale” e il brevetto di Space V non copre soltanto la movimentazione dei ripiani della serra per cui assicura una buona protezione dell’idea”.

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Pensa che le innovazioni di Space V possano contribuire a pratiche agricole sostenibili sulla Terra? Se si, in che modo?

“È insito nella logica dello sviluppo delle tecnologie per lo spazio che queste diventino direttamente o indirettamente una competenza utile per migliorare la qualità della vita e dell’ambiente sulla Terra.

Senza dubbio l’agricoltura spaziale ci insegna la massima sobrietà nell’uso delle risorse – energia, acqua, fertilizzanti e pesticidi, ma lo studio delle piante in microgravità ha già altre importanti ricadute nell’agricoltura terrestre. Dall’osservazione di come le piante si modificano e si adattano alle condizioni estreme nello spazio si possono rivelare meccanismi di resistenza allo stress ambientale applicabili sulla Terra.

Dall’utilizzo di sistemi di illuminazione artificiale di cui si può modificare lo spettro – luce rossa, luce blu – si riesce a sviluppare piante più ricche di alcuni elementi nutraceutici. Ci sono indicazioni che semi prodotti in orbita e riseminati a Terra potrebbero sviluppare colture più resistenti a siccità, malattie o condizioni climatiche estreme. Identificando i geni che si attivano in microgravità migliorando certe caratteristiche delle piante, si potrebbero trasferire queste scoperte su scala industriale e si sa che il mercato globale dei farmaci derivati da piante vale miliardi di dollari e cresce costantemente mentre miglioramenti anche marginali nelle colture principali possono tradursi in miliardi di dollari di valore aggiunto nel settore agricolo mondiale.

Space V, per sua natura e competenze, guarda al mondo del viaggio nello spazio, ma ci potrebbero essere situazioni favorevoli di mercato per la serra adattiva anche su sistemi di trasporto terrestri, navi di lunga percorrenza con rari accosti, insediamenti in piattaforme remote e ambienti meteorologicamente “ostili” che richiedono sistemi dedicati di coltivazione. Mi risulta che ci sono già progetti in corso di coltivazione nel deserto dell’Arabia Saudita e degli Emirati che si ispirano agli studi per le coltivazioni nello spazio”.

Spazio-mare-Roberta-Busatto_

Giornalista, specializzata in Economia dello Spazio, in Economia del Mare e in Mindfulness - istruttrice MBSR. Dal 2004 si occupa di Aerospazio e dal 2011 di Economia del Mare. Dirige Economia dello Spazio Magazine e Economia del Mare Magazine, oltre a seguire le relazioni istituzionali ed esterne in questi settori per importanti stakeholder.